Enego - Pian di Marcesina – Rifugio Barricata

ITINERARIO

CENNI STORICI

Enego, porta d’accesso all’Altopiano di Asiago, importante nodo che collega la sottostante Val Brenta al sistema viario che porta al capoluogo e proseguendo verso sud-ovest scende allo sbocco della Val d’Astico con la strada del Costo, fondamentale collegamento logistico in caso di guerra. Dal 24 maggio 1915 al 4 novembre 1918 questo territorio fu protagonista di ininterrotti combattimenti, niente venne risparmiato dalla furia devastatrice della guerra, ancora oggi i pascoli mostrano innumerevoli crateri provocati dai continui bombardamenti, milioni di proiettili di tutti i calibri, molti dei quali ancora sepolti nel terreno.

Enego bombardata dall artiglieria austro ungarica

La guerra in Altopiano inizia alle ore 3.55 del 24 maggio 1915, quando i cannoni del forte Verena aprirono il fuoco contro il forte Verle, fu il segnale d’inizio di quella che passò alla storia come “La guerra dei forti”. Il segnale fu raccolto dagli altri forti italiani e dalle batterie accuratamente mimetizzate nei boschi circostanti, cannoni e obici cominciarono la loro opera demolitrice, preparatoria all’attacco delle fanterie.

L’Altopiano di Asiago era stato interessato a numerosi lavori campali per preparare il suo territorio ad un eventuale conflitto con l’impero Austro-Ungarico, scomodo partner della Triplice Alleanza fortemente voluta dalla Germania del cancelliere Bismarck, in funzione antifrancese. Imponenti lavori avevano interessato tutto l’arco alpino fra fine 800 e inizi 900, vennero da ambo le parti dei confini investite ingentissime somme per realizzare caserme, fortezze, sbarramenti, polveriere; particolari attenzioni vennero rivolte alle vallate e ai passi che conducevano alle zone più facilmente accessibili, qui si costruì una vera e propria cintura di forti, spesso a fronteggiarsi contrapposta sul limitare dei confini di stato. Molti forti erano in corso di realizzazione allo scoppio della guerra, alcuni privi di armamento o incompleti vennero addirittura abbandonati. Un particolare differenziava quelli italiani da quelli austro-ungarici, questi ultimi vennero costruiti ad una distanza tale da garantire alle rispettive artiglierie la possibilità di assicurarne la reciproca difesa nel caso di attacco diretto delle fanterie; erano a portata dei rispettivi cannoni.

La Guerra dei forti è la prima fase della Grande Guerra sugli altipiani veneto-trentini, interessò marginalmente il territorio circostante ma fu significativa per comprendere l’inutilità di tutto quanto era stato predisposto a difesa del confine, i progetti che dovevano garantire la robustezza a prova di bomba erano stati superati nel giro di pochi anni dal continuo evolversi delle artiglierie di grosso e grossissimo calibro, le coperture di cemento erano state calcolate per resistere alle granate da 280 mm, non ai nuovi obici da 305 e 420.

Le principali fortificazioni lungo la nostra linea di confine erano:

Austro-Ungariche: forte Spitz Vezzena (detto anche Verle o Pizzo Levico) a quota 1908 m., forte di Busa Verle a quota 1500 m., forte di Campo Luserna a quota 1549 m., forte Belvedere di Lavarone a quota 1177 m., forte Dosso delle Somme a Serrada di Folgaria a quota 1670 m., forte Sommo Alto a quota 1613 m., forte Cherle-San Sebastiano a quota 1445m.

Italiane: forte Verena a quota 2015 m., forte Cima di Campolongo a quota 1720 m., forte di Punta Corbin a quota 1077 m., forte Campomolon a quota 1855 m.

I forti della Grande Guerra

Il bombardamento iniziato dal forte Verena contro il Verle continuò ininterrottamente per quattro giorni, vennero sparati oltre 20.000 colpi, più di 5.000 colpirono direttamente le strutture della fortificazione demolendone molte parti e mettendo parzialmente fuori gioco la sua potenza difensiva e offensiva, durante le pause del bombardamento la guarnigione tamponava le brecce che si erano aperte nella copertura in calcestruzzo, si voleva evitare che un proiettile “fortunato” vi si infilasse facendo scoppiare le riservette e distruggendo così tutto il forte. Le vicende della guarnigione sono magistralmente narrate dall’allora tenente d’artiglieria Fritz Weber nel suo libro di ricordi “Tappe della disfatta”, la narrazione trasmette tutta l’angoscia patita: “Non sappiamo se fuori faccia giorno o notte. Il forte è accecato. Siamo informati di quello che succede davanti e intorno a noi, grazie soltanto alle segnalazioni dell’osservatore sul punto di appoggio. Non udiamo altro che scoppi, il rumore dei crolli e i battiti furiosi del nostro cuore. Ogni giorno si lamentano nuove vittime. La maggior parte con orrende mutilazioni.”

Il forte Verle semidistrutto dall artiglieria italiana (1)

Quei terribili bombardamenti provocarono un fatto inatteso, la resa del forte Luserna. Verso le 16 del 28 maggio un osservatore del forte Verle in servizio nella torretta corazzata girevole constatava stupefatto che sugli spalti del forte Luserna erano comparse quattro bandiere bianche il gravissimo fatto richiedeva un intervento immediato perché gruppi di soldati italiani erano in avvicinamento. Immediatamente si inizia a sparare con colpi a shrapnels sul forte, una bandiera viene abbattuta e gli italiani si ritirano. Una pattuglia viene inviata per verificare la situazione e ristabilire il comando chiaramente compromesso. Il “caso Luserna” ebbe lunghi e contrastati esiti, il suo comandante, tenete Nebesar, subì innumerevoli inchieste e relativi processi, alla fine della guerra le sue disavventure giudiziarie non si erano ancora concluse. I nervi del tenente avevano ceduto alla pressione dell’interminabile bombardamento, all’epoca non si conoscevano ancora i terribili effetti di un simile stress. Il comando della guarnigione venne rilevato dal tenente Schlaufer, che assieme ai cadetti Deutschmann e Wolfrum, recuperò gli otturatori gettati nelle cisterne e ripristinò gli impianti danneggiati, il forte riprese pienamente le sue funzioni e resse gli ulteriori bombardamenti.

Forte Luserna sventrato

La supremazia italiana venne duramente compromessa il 12 giugno quando un proiettile a scoppio ritardato perforò la corazza di una torretta del forte Verena scoppiando all’interno della polveriera uccidendo il comandante Umberto Turchetti, due sottotenenti e 43 soldati, erano entrati in azione i mortai d’assedio Skoda modello 1911 da 30,5 cm. Il fortunato colpo viene attribuito alla Batteria n° 19, il proiettile impiegato era stato appositamente progettato per demolire le moderne fortificazioni in cemento armato e perforare le cupole di acciaio. Il proiettile, denominato “30,5 cm M. 11/9 Normalgranate” era lungo 1130 millimetri, pesava 382,5 chilogrammi, caricato con 40 chilogrammi di tritolo, forma molto appuntita con ogiva in acciaio al nikel-cromo, la spoletta era posteriore avvitata con un grosso fondello, veniva regolata per scoppiare dopo la penetrazione del proiettile nelle strutture fortificate. Il mortaio Skoda aveva una gittata massima di 9.600 metri e minima di 6.100 metri.

La batteria 19Le rovine di forte Verena (1)

Gli effetti di questo proiettile erano devastanti, questa la testimonianza del sottotenente Luigi Gasparotto, in forza al 209° battaglione di milizia territoriale che il 2 agosto stava riparando col suo reparto la strada di accesso al forte Campomolon: “D’improvviso un urlo immenso, angoscioso, terrificante sopraggiunge e si prolunga, si estende e si avvicina, sempre più forte, sempre più rabbioso, crudele, feroce; e mentre tutta l’aria intorno ne trema, e il cuore sospende i suoi battiti e il petto trattiene il respiro, e gli occhi si aprono trasognanti al terribile prodigio, l’urlo ha tempo di finire in uno schianto e in un nembo, e dallo schianto e dal nembo si sprigiona un turbine di polvere, di pietre, di ferro, onde l’aria resta a lungo oscurata e una pioggia d’innumeri schegge si irradia e discende quasi lentamente per ampio raggio all’intorno. E’ il 305”. Durante la permanenza in quel settore Gasparotto ebbe modo di registrare nelle sue memorie che numerosi colpi di 305 non esplodevano, in effetti più della metà venivano ritrovati intatti, anche gli osservatori dell’artiglieria austro-ungarica si erano accorti del problema, ma lo attribuivano a inevitabili difetti della spoletta causa l’affrettata produzione. Un giovane professore palermitano, Mauro Picone, docente di meccanica razionale all’Università di Torino, era di parere diverso. Arruolato nel 1916 come sottotenente di complemento e assegnato al 21° raggruppamento artiglieria d’assedio della 1ª Armata, osservando gli effetti dei tiri e studiando la balistica dei mortai a canna corta che utilizzavano granate particolarmente pesanti, arrivò alla conclusione che i proiettili si giravano durante la traiettoria impattando quindi col fianco o col fondello e non di punta, questo fatto inevitabilmente non innescava la spoletta a percussione. Il problema si accentuava quando si riduceva il tiro alla gittata minima e riguardava tutti i tipi di mortaio a canna corta, gli italiani mantennero segreta la scoperta e ordinarono l’arretramento dei pezzi per impiegarli solamente alla massima gittata.

La granata da 305

La guerra dei forti continuò con fasi alterne fino all’arrivo dell’inverno che “congelò” definitivamente ogni velleità offensiva. Ma il loro destino era segnato, i nuovi mortai di grosso calibro ne avevano evidenziato l’estrema vulnerabilità, vennero progressivamente disarmati diventando osservatori e magazzini. Il loro destino si concluse definitivamente nella primavera del 1916.

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